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Real Madrid-Juventus, tra post-verità e deriva patologica del calcio

A cura di Armando Fico

Il bianco ed il nero sono due colori che non lasciano scampo. Ontologicamente antitetici, divisivi per natura, netti e potenti a tal punto da imporre sempre e comunque il compimento di una scelta profondamente rivelatrice della propria personalità.

Il bianco ed il nero non si lasciano interpretare né manipolare. Il bianco ed il nero sono, esistono… ma rigorosamente in assenza dell’altro, come facce della stessa medaglia.

Ironia della sorte, il doppio scontro tra Juventus e Real Madrid in Champions è tutto in questa dicotomia cromatica: la debacle dell’andata contro l’impresa del ritorno, l’epicità vista in campo contro la meschinità “ammirata” nel post gara, l’albagia sabauda (sprezzante e pure mal’indossata certe volte) mostrata in Italia a fronte di un’inaudita violenza verbale e di pensiero rivelata al mondo con tale disinvoltura, cinica e sprezzante, al punto da rendere tutto il post gara del ritorno molto più che irreale: surreale.

Surreale post-gara

Surreale perché le parole di Agnelli prima, Buffon nel mentre e Chiellini da ultimo distolgono dalla realtà dei fatti. Anzi, distorcono la realtà stessa capovolgendone pericolosamente canoni e punti di riferimento valoriali. Accade così che Agnelli invochi il VAR mentre in Italia di fatto la sua società lo osteggi; accade così che Buffon invochi la sensibilità (non emotiva bensì tecnica, a mio avviso) arbitrale quando poi sul famoso gol di Muntari dichiarò che non avrebbe mai aiutato l’arbitro ad accorgersi dell’errore; accade così che Chiellini abbia il coraggio di rimarcare il fatto di non aver messo le mani addosso all’arbitro, quasi fosse un vanto o un’eccezione alla regola di cui rimanere positivamente stupiti. Tutto il contrario di tutto insomma, come se la questione fosse effettivamente la concessione del rigore e non la situazione di gioco od un’errata lettura da parte della difesa bianconera a portare Vazquez a trovarsi solo a centro area e Benatia ad intervenire alla disperata.

Il fulcro del discorso è tutto qui, e così come accaduto con Brexit o le elezioni U.S.A., nel calcio come in politica è giunto il tempo della post-verità; un tempo dove i fatti oggettivi sono meno importanti che plasmare l’opinione pubblica rispetto alla leva esercitata sulle emozioni e credenze popolari. Nel preciso momento in cui i tre si sono presentati davanti ai microfoni, infatti, la verità non aveva alcuna importanza; persino il gioco non ne aveva più, e con esso il risultato ed il passaggio del turno. La posta in palio era infatti molto più alta: era il potere il vero obiettivo.
Il potere, ovviamente, è quello del Madrid, a cui altri, magari “i buoni”, vogliono sostituirsi per porre fine ad un’egemonia (sportiva e non) capace di influenzare indistintamente dalla politica alle competizioni calcistiche. Nemmeno troppo casuale è stata la scelta delle tre figure scese in campo: il Presidente, l’uomo simbolo a fine carriera, l’indomito lottatore hanno infatti accentuato ancor di più la brutalità degli spagnoli, pronti, pur di vincere, in un sol colpo a calpestare una società modello, strappare ad un campione leggendario l’ultima grande gioia europea ed avvilire persino Giorgio Chiellini, il Leonida alle Termopili bianconere del Bernabeu.

Ecco perché, complici anche i media italiani, verità, gioco, analisi sono irrilevanti: perché non servono a nulla. Se l’obiettivo è infatti il potere è sul pathos che si deve fare leva, perché consente di spostare l’attenzione su un finto problema che però scoperchia le supposte nefandezze del potere che si vuole rovesciare.

Ma se tutto questo è vero, allora siamo già oltre, e cioè in una fase patologica (sempre da pathos, appunto), cui nel caso specifico di mercoledì sera i media italiani hanno prestato le loro armi più potenti senza alcun filtro. E così, fa alquanto specie sentir disperarsi Buffon e chiedere giustizia (“Io quando non faccio sfoggio i tutto il mio repertorio, lo pago”) in un delirante doppio binario moralista e giustizialista, quando in momenti analoghi proprio lui stesso ha impedito che i suoi avversari avessero la giustizia che a loro volta chiedevano. Tutto questo nient’altro è che volontà di dominio e di sopraffazione, che poco ha a che vedere col calcio e lo sport in generale; e chi non la osteggia ne è complice; e non c’è merito sportivo che possa giustificarla. Nemmeno una carriera immensa, proprio come quella di Buffon.

A cura di Armando Fico

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